Seconda parte della saga della sora Pallotta del sommo Della Fregna di Rovere.
La porta dell’appartamento cigolò con fare sexy, cosa insolita per quella catapecchia generalmente grigia come un cielo inglese la domenica pomeriggio.
La sora Pallotta scivolò dentro con la grazia di una venere callipigia e trasse subitamente a sé la preda.
Gli mordicchiò l’orecchio, voluttuosa, come la mantide che già durante l’accoppiamento pregusti il successivo, lugubre pasto, e lo trascinò all’interno del boudoir chiudendo con una zampata tanto lesta quanto volgare l’uscio del peccato.
“Aspettami qui, mi vado a cambiare” ammiccò la vecchiaccia con voce arrochita: seducente nelle sue intenzioni, agghiacciante per il povero casalino, che da quando la Pallotta gli aveva fatto la proposta pareva aver perduto irresolubilmente l’originaria, fascistissima gagliardia: pareva un ragazzino spaventato davanti alla porta del preside.
Ma va capito il suo turbamento, o meglio: bisogna comprendere quanto quel turbamento fosse figlio di un conflitto tremendo, intestino, viscerale, ontologico.
Diego Rivera, il garzone del celeberrimo salumificio Cecioni aveva un disperato bisogno di soldi.
Sì, certo, chi non ne ha? penserà l’arguto lettore, disincantato uomo (o donna?) di mondo.
Chiunque (davvero chiunque?) sarebbe tentato da una proposta simile: una collana d’oro, rubino, diamante, zaffiro e ambra, tutti insieme, che sarà valsa cento, centocinquanta milioni di lire sonanti se rivenduta, in cambio… in cambio di… di una sana, onestissima, sacrosanta inchiavardata. Con un bidone di donna, certo, ma pur sempre una donna (e pur sempre un’inchiavardata solitaria e pur sempre cento, centocinquanta milioni di lire sonanti). Nessuno lo sarebbe venuto a sapere e lui sarebbe riuscito…
Aveva debiti. Debiti forti, dovuti alla sua passione per le corse, per le scommesse sui cavalli.
Era capitato che puntasse molto (poniamo tre milioni e due: lo stipendio di due mesi) su Supercalifragilisti, un brocco malefico, o meglio: un campione assoluto (come gli aveva assicurato il Cozzaro Nero, il barbuto pescivendolo della Tuscolana) che si era tanto misteriosamente quanto repentinamente trasformato in brocco inguardabile. Aveva perso; perso soldi non suoi che ora non poteva restituire.
La sera prima gli erano andati sotto casa con spranghe e martelli. Se l’era cavata, ma aveva fatto un errore ancora più grosso: aveva promesso di pagare entro il giorno successivo. Il giorno era arrivato e lui i soldi non li aveva.
Si può ben comprendere, dunque, quel turbamento, quella spaventosa (e spaventata) ostinazione che lo aveva condotto in quell’appartamento che puzzava di cavolo e aglio, a sedersi su di un letto cigolante in attesa della donna più brutta del mondo: centoventi chili di burro e peli sudaticci.
La porta di aprì, lei comparve: i seni stracolmi, lasciati orgogliosamente scoperti, come un fiero stendardo occhieggiavano superbi; una straripante guêpière nera e pizzuta che tentava di nascondere il ventre da capodoglio; le autoreggenti che letteralmente esplodevano attorno a due tralicci dell’Enel. Infine la collana: luccicante, bellissima, maliosa.
“Vienila a prendere, bel ficone” rantolò l’orrida, lasciandosela scivolare, lasciva, al di sotto dell’immenso tendone da circo che le fungeva da slip. (Continua).
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