Se è vero che persino Hugo Pratt, l’indiscusso e celebrato padre del fumetto italiano, fu costretto a difendersi dalle critiche della maggior parte degli intellettuali nostrani, che lo accusavano di dare vita ad un’arte superflua, proclamando il suo “desiderio di essere inutile”, si può ben capire quanto il conflitto tra sostenitori e detrattori del fumetto abbia radici profonde e ben radicate nella cultura del nostro tempo.
Le “strisce” sono infatti da sempre considerate un genere minore, un sottoprodotto di altre arti (pittura, cinema, letteratura) poco appetibile per un pubblico dotto e, soprattutto, poco utile, appunto.
Si può provare a individuare la ragione di tale luogo comune (estremamente diffuso) nella storia di questo genere e più precisamente nelle sue origini.
Ignorando le teorie secondo le quali i progenitori del fumetto sarebbero addirittura i graffiti primitivi, le prime sequenze illustrate a noi note risultano essere quelle del ginevrino Rudolphe Töpffer, datate 1827.
È certo poi che questi si ispirò a sua volta a due suoi predecessori: William Hogarth, incisore e autore di stampe satiriche della prima metà del ‘700, al quale “sottrasse” l’idea di una storia raccontata attraverso i disegni e Thomas Rowlandson, disegnatore della seconda metà del XVIII secolo, dal quale prese invece il segno caricaturale che poi nel corso degli anni perfezionò sempre più.
Ma sono altri due gli autori (che succedono di poco a Töpffer ) che ci consentono un importante indizio per spiegare le cause del discredito dei grandi intellettuali nei confronti del fumetto: Wilhelm Busch ed Heinrich Hoffmann, entrambi tedeschi.
Questi sono i padri di due storie molto simili: Max un Moritz (1865) e Struwwelpeter (1845,tradotto in italiano con Pierino Porcospino), che narrano le vicende di alcuni monellacci i quali, attraverso le loro ripetute malefatte, davano appropriate indicazioni (illustrate, naturalmente) riguardo a ciò che un fanciullo dai tre ai sei anni non avrebbe assolutamente dovuto fare.
L’intento pedagogico di tali opere e l’età (molto bassa) dei destinatari delle stesse possono insomma far comprendere come il fumetto venga storicamente associato ad un pubblico estremamente giovane.
Associazione giustificata peraltro da grossa parte della produzione fumettistica del ‘900 che con Topolino e gli altri personaggi Disney, Popeye, Snoopy, Tex e via dicendo è parsa effettivamente trovarsi maggiormente a suo agio con un pubblico meno “esigente”.
È solo con Will Eisner, Bob Kane (Batman), Alan Moore, Frank Miller e Art Spiegelmen (e in casa nostra Pratt, Crepax, Manara, Pazienza) che il fumetto vira verso “qualcosa di più di un semplice passatempo” e cerca uno spessore contenutistico e intellettuale maggiore.
A ulteriore credito di queste considerazioni va poi aggiunta la valutazione che effettivamente le immagini risultino essere più facili e intuitive rispetto ad altre forme comunicative e allora una storia fatta di disegni sarà (in genere) di più agevole comprensione rispetto ad una stessa fatta di parole.
E molto spesso i più dotti sembrano aborrire le realtà semplici e paiono reputare maggiormente degno ingarbugliare un poco le cose.
L. I.
Nessun commento:
Posta un commento