A
partire dal Manifesto del partito comunista, passando per quello futurista,
dadaista, nazionalsocialista e scapigliato, la storia di politica, arte e
letteratura è stata spesso caratterizzata da questo potente strumento: un
foglio bianco sul quale appuntare i capisaldi, le regole e gli intenti di
un’idea nuova, un movimento, una rivoluzione.
Il
manifesto di Sugarpulp data 2008 e si fonda su dieci brevi principi.
Il
primo è il desiderio di fare da punto d’incontro per tutti gli appassionati di
pulp e noir, generi di nicchia, sdoganati in Italia durante gli anni Novanta
dallo straordinario successo di film (Pulp fiction), libri (soprattutto quelli
di Andrea G. Pinketts e Niccolò Ammanniti, fondatori di un gruppo, “I
cannibali”, per certi versi simile a Sugarpulp) e fumetti (Sin city, The Spirit,
300).
Il
secondo è quello di raccogliere storie di autori che scrivano della propria
terra, dei propri luoghi, di ciò che più conoscono, insomma; racconti nerissimi
ambientati nella “Bassa”, tra Padova e la sua provincia più desolata e
nebbiosa, fatta di barsport, patronati e campi di barbabietole.
Ma
non solo: tra gli autori del collettivo ce ne sono molti che provengono da
altri luoghi e altre storie (ad esempio Omar Di Monopoli, scrittore di western
pugliesi); non interessa da dove venga chi scriva, conta solo il legame col
territorio, qualunque territorio.
Altro
punto: il modo di far cultura, che deve essere il più popolare possibile; il valore
di un’idea, come di un’opera è dato tanto dal suo effettivo spessore, quanto
dalla sua capacità di rendere universale il proprio messaggio.
Si
pensi agli artisti (occidentali) considerati più grandi: Omero, Dante, Mozart,
Shakespeare e, in tempi più recenti: Beatles, Rolling Stones, Collodi; tutti
autori oltremodo popolari, in ognuna delle possibili accezioni di tale
aggettivo.
Va
da sé un altro punto allora: il linguaggio deve essere il più immediato
possibile, scarno, quasi sporco, “diretto come un pugno sullo stomaco”,
parafrasando Raymond Chandler, uno dei maggiori noiristi americani; ciò che
conta è l’intreccio, la vicenda, le sensazioni che la carta riesca a trasmettere
agli occhi di chi legga.
Joe
R. Lansdale, altro grande autore di genere (lui, al contrario di Chandler,
ancora in vita) è figlio di un analfabeta e la sua prosa non viene certo
portata ad esempio nelle scuole, ma la potenza narrativa che riesce a esprimere
è indiscussa.
E
poi l’epica, il piacere delle grandi storie, il susseguirsi continuo di fatti
ed eventi, senza la pretesa di inseguire uno scopo più alto, quel semplice,
legittimo “desiderio di essere inutile” che anche un grande fumettaro come Hugo
Pratt ha per lungo tempo rivendicato di fronte a chi lo accusasse di dare vita
a un’arte minore, popolare e frivola.
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