12 dicembre 2011

Padova: "Il Fenomeno dello Sugarpulp"


A partire dal Manifesto del partito comunista, passando per quello futurista, dadaista, nazionalsocialista e scapigliato, la storia di politica, arte e letteratura è stata spesso caratterizzata da questo potente strumento: un foglio bianco sul quale appuntare i capisaldi, le regole e gli intenti di un’idea nuova, un movimento, una rivoluzione.
Il manifesto di Sugarpulp data 2008 e si fonda su dieci brevi principi.
Il primo è il desiderio di fare da punto d’incontro per tutti gli appassionati di pulp e noir, generi di nicchia, sdoganati in Italia durante gli anni Novanta dallo straordinario successo di film (Pulp fiction), libri (soprattutto quelli di Andrea G. Pinketts e Niccolò Ammanniti, fondatori di un gruppo, “I cannibali”, per certi versi simile a Sugarpulp) e fumetti (Sin city, The Spirit, 300).
Il secondo è quello di raccogliere storie di autori che scrivano della propria terra, dei propri luoghi, di ciò che più conoscono, insomma; racconti nerissimi ambientati nella “Bassa”, tra Padova e la sua provincia più desolata e nebbiosa, fatta di barsport, patronati e campi di barbabietole.
Ma non solo: tra gli autori del collettivo ce ne sono molti che provengono da altri luoghi e altre storie (ad esempio Omar Di Monopoli, scrittore di western pugliesi); non interessa da dove venga chi scriva, conta solo il legame col territorio, qualunque territorio.
Altro punto: il modo di far cultura, che deve essere il più popolare possibile; il valore di un’idea, come di un’opera è dato tanto dal suo effettivo spessore, quanto dalla sua capacità di rendere universale il proprio messaggio.
Si pensi agli artisti (occidentali) considerati più grandi: Omero, Dante, Mozart, Shakespeare e, in tempi più recenti: Beatles, Rolling Stones, Collodi; tutti autori oltremodo popolari, in ognuna delle possibili accezioni di tale aggettivo.
Va da sé un altro punto allora: il linguaggio deve essere il più immediato possibile, scarno, quasi sporco, “diretto come un pugno sullo stomaco”, parafrasando Raymond Chandler, uno dei maggiori noiristi americani; ciò che conta è l’intreccio, la vicenda, le sensazioni che la carta riesca a trasmettere agli occhi di chi legga.
Joe R. Lansdale, altro grande autore di genere (lui, al contrario di Chandler, ancora in vita) è figlio di un analfabeta e la sua prosa non viene certo portata ad esempio nelle scuole, ma la potenza narrativa che riesce a esprimere è indiscussa.
E poi l’epica, il piacere delle grandi storie, il susseguirsi continuo di fatti ed eventi, senza la pretesa di inseguire uno scopo più alto, quel semplice, legittimo “desiderio di essere inutile” che anche un grande fumettaro come Hugo Pratt ha per lungo tempo rivendicato di fronte a chi lo accusasse di dare vita a un’arte minore, popolare e frivola.

L. I.

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