5 gennaio 2012

Il racconto è superiore al romanzo?

Prima parte (Il Sole 24 Ore, non ricordo la data, tutti i diritti riservati)

Nel 1986 rivolsero a Giorgio Manganelli una domanda «maliziosa, disonesta, intellettualmente losca e improponibile», che suonava così: «Che cosa non è un racconto?», dove davvero losco era quel "non" che imprigionava la risposta. Lo scrittore però non si intimidì e rispose con tutta la sua irruenza di geniale connaisseur della letteratura. Stabilito che persino una ricetta dell'Artusi o la guida del telefono hanno una contorta parentela con tale genere narrativo, l'unica certezza possibile e conclusione accettabile gli parve quella che asseriva una lapalissiana eppure fragile verità: il racconto non è un romanzo. Manganelli naturalmente non si fermò qui, suggerendo per via negativa alcune preziose indicazioni: «Un romanzo si può scrivere solo rinunciando alle minuscole, ripetitive eresie dei racconti; le mostruosità effimere, le frettolose perversioni, gli appunti per un delirio». Perché se «il romanzo è impresa monoteistica», il racconto invece è per sua natura profonda sempre «polimorfo». E questo, potrei aggiungere con tutti gli appassionati del racconto, è la ragione del suo fascino intramontabile attraverso epoche differenti. Non la brevità, non la sobrietà, ma la mutevolezza dei suoi percorsi. Fatta salva un'unica condizione che è meglio riassumere con le parole di uno che se ne intendeva, Raymond Carver: «Adoro il salto rapido che c'è in un buon racconto, l'emozione che spesso ha inizio sin dalla prima frase...».
Rapidità ed emozione sono parole chiave: se un romanzo lo si può affrontare con calma, pazientando su una iniziale difficoltà, con un racconto non si può tergiversare, e l'autore lo sa: cominci a leggere e, se non sei dentro, sei fuori. Per questo, credo, certi racconti hanno incipit memorabili, come i tre che ora propongo. «Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato in un enorme insetto». Chi ha letto La metamorfosi di Franz Kafka difficilmente può dimenticare il salto rapido che il suo inizio prospetta. Così sapiente e così tendenzioso che fin da queste prime parole sappiamo che ci muoveremo tra l'assoluta realtà – il concreto insetto nella sua enormità – e il mondo misterioso e fantastico dei «sogni inquieti». Ma queste celebri righe sono per me meno perturbanti di quelle che propone ad apertura di una sua esemplare short story un altro maestro del racconto: «Era ora di colazione, e tutti sedevano sotto le due ali verdi della tenda da pranzo come se non fosse accaduto nulla». Quel «come se non fosse accaduto nulla» con cui Ernest Hemingway apre La breve vita felice di Francis Macomber sono un perverso segnale d'allarme che non permette al lettore di tirarsi indietro. Il terzo incipit che non ho mai dimenticato suona così: «Con la disperazione – gelida, acuta disperazione – conficcata in fondo al cuore come un perfido coltello, Miss Meadows, con toga, tocco e bacchetta in mano, percorreva i freddi corridoi che portavano alla sala da musica». Questo, della Lezione di canto di Katherine Mansfield, non è solo un salto rapido, è un vero concentrato di informazioni che ci trascina, come un forte vento improvviso, nel cuore di una situazione: musica e disperazione, una bacchetta in mano e un coltello conficcato nel cuore. Cosa sta succedendo a Miss Meadows? (Continua).

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