6 gennaio 2012

Il racconto è superiore al romanzo?

(Parte seconda, ignoro l'autore, Il Sole 24 Ore, Riproduzione riservata)

Ma non solo nel momento iniziale l'autore di racconti deve avere l'energia – e l'anima – del centometrista. Dal momento che la storia deve espandersi e «sfuggire al suo destino di brevità», come scrive un'altra maestra della materia cioè Flannery O'Connor, lo scatto è necessario in ogni fase della corsa. Scatto mentale, polimorfismo della scrittura. Se Kafka racconta la vicenda fantastica del suo insetto con un realismo minuzioso tanto che alla fine di casa Samsa conosciamo ogni mobile e abitante, nel Cappotto Nicolaj Gogol' entro lo spazio di poche righe travolge il crudo realismo della sua narrazione con l'inaspettata irruzione di un fantasma: il suo protagonista da impiegato umiliato e maltrattato in vita si trasforma, dopo la morte, in uno spettro temuto e trionfante. Carver diceva che un racconto si può «leggere e scrivere in una sola seduta». Mi sembra vero per quel che riguarda la lettura – è una delle seduzioni non secondarie di questo genere letterario – ma molto meno per quel che riguarda la scrittura (lui stesso del resto ammette che ognuna delle sue short story, sia pure stesa in una sola seduta, lo obbligava a un altissimo numero di revisioni). Perché chi scrive un racconto si accolla la responsabilità di non lasciar mai cadere la tensione e non può permettersi tempi morti, come può invece l'autore di romanzi, al quale il lettore perdona qualche pagina un po' debole o qualche raccordo goffo (non troppi, ovviamente) perché confida, come confida il romanziere, nel tempo lungo dell'azione. Per questo un racconto è facile da leggere, difficile da scrivere. Ed è per la sua capacità di tensione e la sua densità che spesso a un racconto si attribuisce, all'interno di una letteratura, un valore germinale. Dal Cappotto di Gogol si dice che nasca la grande letteratura ottocentesca russa, ma infinite storie sono nate dagli «appunti per un delirio» di Edgar Allan Poe e infinita ispirazione dall'«eresia» di Bartleby lo scrivano di Melville o dalle «mostruosità effimere» di Kafka.
Così polimorfo il racconto, così misteriosa la sua formula, che per quante analisi ne sono state fatte e definizioni tentate ognuno è un caso a sé e rappresenta sempre l'eccezione rispetto alla regola. Per fare un solo esempio, impossibile trattare come un modello esclusivo la perfetta scrittura tutta azione e dialoghi di un Hemingway o di un Carver se si conosce lo stile meditativo dei meravigliosi racconti di Elias Canetti raccolti in Le voci di Marrakesh. Niente azione né dialoghi, solo figure sfuggenti, apparizioni, luce, silenzi. Come in La donna alla grata: una stradina, un uomo che passeggia, un volto femminile intravisto dietro l'inferriata di una finestra, un mormorio cantilenante bastano allo scrittore per lanciare al lettore la sua sfida narrativa.

Nessun commento:

Posta un commento